lunedì 30 dicembre 2013

il Capitano Cook incontra i Virginiana Miller

I Virginiana sono uno dei gruppi più interessanti del panorama italiano attuale. Sulla scena dal 1990, hanno sei dischi in studio all’attivo, di cui l’ultimo, "Venga il regno”, pubblicato recentemente, sta ottenendo ampi consensi. Seguendo la band nella loro recente visita promozionale milanese, tra la presentazione del disco alla Feltrinelli e l’impegno successivo a Radio Popolare, sono riuscito ad intervistare Simone Lenzi in un umido scantinato, nell'intervallo tra un set e l'altro. Ne è uscito il ritratto di un uomo, ancor prima di un artista, che, col trascorrere degli anni, ha acquisito consapevolezza di sé e del proprio valore. Oggi, dalla musica e dalle parole delle loro canzoni, traspaiono una maturità ed una serenità che sembrano derivare dall'aver imparato ad “accettarsi”, traguardo a cui credo ognuno di noi, in fondo, aspiri ad arrivare.
Venga il regno sembra un traguardo, è un lavoro maturo ed equilibrato. Un grande disco pop, nell’accezione più nobile della parola, accessibile ma con contenuti molto profondi. Come è nato e cosa rappresenta per voi questo nuovo capitolo nella storia dei Virginiana?
Probabilmente il disco rappresenta una raggiunta consapevolezza dei nostri mezzi espressivi, che in qualche modo abbiamo affinato durante questi anni di lavoro. Forse siamo riusciti a scrivere delle canzoni che, come dire, non avessero complicazioni inutili, che mirassero dritto a quel che avevano da dire. I brani, infatti, sono nati abbastanza spontaneamente e in un periodo di tempo piuttosto limitato.
Una bella giornata” contiene l'esortazione a vivere qui e ora, senza aspettarsi niente di diverso dalla bellezza delle piccole azioni quotidiane e l’invito a farle trionfare sul resto. Ci vuole coraggio per vivere così o è solo una presa di coscienza che questo è l'unico modo che ci resta?
Probabilmente potrebbe anche trattarsi semplicemente della proiezione nella realtà di un dato anagrafico, avendo noi di media intorno ai quarantacinque anni. È chiaro che se, alla nostra età, avessimo ancora una visione del mondo che prevede infinite possibilità saremmo affetti, come dire, da un giovanilismo patologico. A questo punto della vita ormai “siamo quel che siamo diventati”, non ci sono più tutte le strade aperte che esistevano vent’anni fa. Il fatto che ce ne siano solo alcune, però, non è necessariamente un dato negativo. Forse sfruttare al meglio quel che si ha, che ci è rimasto, può anche rivelarsi una possibilità per agire più incisivamente sulla realtà.

Nel disco sono molto presenti temi come l'amore o il rapporto a due, anche dove la tematica del brano è prettamente sociale, come ad esempio in “Anni di piombo”. Quanto è importante il proprio modo di amare nell'affrontare ciò che succede all'esterno?
Direi che è fondamentale. Penso che, in fondo, la quasi totalità dei brani del disco siano canzoni d’amore. Naturalmente, poi, bisogna vedere cosa s’intende esattamente per amore. Cerchiamo di parlare di questo sentimento oltre noi stessi, perché non crediamo che le vicende personali siano, alla fine, così interessanti.
Flaiano diceva: “L’amore è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli amanti“, insomma bisogna che la faccia qualcun altro. Chi scrive canzoni a volte ha la possibilità, appunto, d’occuparsi d’amore in modo più serio. Con le debitissime proporzioni è "l’amor che move il mondo e l’altre stelle”. Questo è il concetto interessante da cui partire. Voglio dire, gli episodi personali, del cuore infranto di turno lo sono molto meno. Nel caso del brano “Anni di Piombo”, l’intento sicuramente era parlare di un momento importante della storia italiana, alla fine, però, riconducendolo ad un rapporto a due. Quando nell’ultima lettera Moro scrive alla moglie: “la mia immensa tenerezza passi per le tue mani” (e noi citiamo questa frase nel testo) è chiaro che queste parole rappresentano qualcosa che alla fine non riguarda più solo lui che l’ha scritta. Veramente, anche letterariamente, secondo noi, si tratta di una forma espressiva perfetta. Tanti altri che in seguito hanno letto le lettere o hanno ripensato a questa vicenda crediamo si siano potuti ampiamente ritrovare nel loro contenuto.
Molto più che in passato, in diversi brani si respira un certo ottimismo. Sembra quasi che una serenità di fondo, pur passando anche attraverso temi drammatici, percorra tutto il disco. Questo stato riflette la tua attuale condizione personale?
Tornando al discorso di prima, se uno arriva a quarantacinque anni e non si è suicidato vuol dire che dei compromessi con la vita li ha fatti, che quindi, tutto sommato, ha trovato una dimensione accettabile dell’esistenza. Io credo, se ci si riesce, che la realtà vada descritta nella sua multiformità. Emozionalmente è qualcosa di complesso: c’è una specie di “maledettismo di maniera” che forse riguarda altri gruppi, ma non noi. Con le loro canzoni vanno ad intercettare un pubblico che c’è già e quasi si aspetta proprio quel modo di rappresentare il quotidiano. Da questo punto di vista, noi siamo un prodotto di marketing molto più difficile da interpretare perché scriviamo canzoni come “Una bella giornata”, ma anche come “Lettera di San Paolo agli operai”. La realtà, però, è fatta così, comprende tutte e due queste visioni. Chi ne vede una sola crediamo sia più interessato a vendere, che non a raccontare la verità. Dopo aver vissuto nella vita esperienze effettivamente più toccanti, forse cominci a lasciare dietro di te un po’ di pessimismo adolescenziale e invece, come dire, inizi anche ad apprezzare quello che hai intorno.

I vostri testi ricevono sempre maggiori riconoscimenti dal punto di vista letterario ma Sanremo vi ha snobbati (e con "Anni di piombo" penso abbia perso una grande occasione), ed anche il Tenco non vi ha mai chiamati. Perché secondo te?
Appunto per quello che dicevo prima: noi siamo un prodotto di marketing difficile. Abbiamo scritto molte canzoni che, secondo me, potevano tranquillamente essere accolte da quella tradizione a cui, per esempio, fa riferimento il Tenco. Il problema è che a un certo punto devi metterti, come dire una sciarpina. Per andare al Tenco ci vuole una sciarpa o delle Clarks, insomma si aspettano una certa cosa…però noi ‘sta sciarpina non ce la siamo mai comprata. Questo vale anche per Sanremo, ma al contrario: cioè lì avremmo dovuto essere una boyband un po’ più giovanile o una più stile “figaccioni maledetti“. Noi, insomma, siamo persone serie, quindi non ci mettiamo le sciarpine e nemmeno facciamo i coglioni oltre il tempo massimo.
Il mondo musicale è sempre più ricco di proposte anche grazie al web, ai social networks ed alla riduzione dei costi per la produzione di un disco. Si è creato un enorme spazio per un’innumerevole quantità di artisti emergenti. Come valuti questa evoluzione? Giova alla musica oppure finisce per logorarla?
Mah, possono accadere tutte e due le cose insieme. L’abbattimento dei costi di produzione, la possibilità che tutti in qualche modo trovino i mezzi per realizzare i loro progetti musicali, per farli conoscere, indubbiamente è un bene. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che quando “un prodotto” costa molto meno alla fine viene anche meno, come dire, quell’autocensura che si dovrebbe avere quando si crea qualcosa destinato ad essere condiviso con il pubblico, quella necessità di chiedersi: “ma ne vale davvero la pena, sto effettivamente dicendo qualcosa d’interessante? Risponde davvero ad una necessità?”. Scemando questa autocensura può succedere che si venga inondati da troppe proposte e che nella sovrabbondanza dell’offerta diventi più difficile orientarsi.

Restando sempre concentrati nell'ambito della musica del nostro paese, c'è qualcosa che ascolti in questo periodo? Qualcosa è riuscito a sorprenderti recentemente?
A me piacciono tante cose in Italia, dico sempre gli stessi nomi, però di fatto ascolto Baustelle, Perturbazione, Pacifico mi piace molto, Thony ha una bellissima voce, ci sono tante proposte interessanti. Naturalmente, ecco non ti capita più di avere quegli incontri musicali come dire che, ti prendono completamente come accadeva quando avevi diciotto anni. Ricordo che a vent’anni, ascoltando per la prima volta un disco degli Smiths rimasi folgorato. Ora, queste folgorazioni non le ho più. Evidentemente non è colpa della musica che si fa, probabilmente è colpa mia che non ho più l’età per questi innamoramenti. Certo io sarei per la diffusione del fatto che, come dire, uno accettasse, in qualche misura, di vivere come la sua età gli impone. Cioè se avessi ottant’anni non mi farei mettere una pompetta per andare a scopare necessariamente. Chi lo fa secondo me sbaglia, però oh, il mondo è bello perché vario…(risata)
Se si parla di Virginiana Miller e Simone Lenzi ci si ricollega subito a Livorno. Un luogo evidentemente stimolante dal punto di vista musicale, vedi artisti come Piero Ciampi, Nada, Bobo Rondelli. I luoghi dove si cresce e si sceglie di vivere quanto sono importanti nella formazione di un artista? Quanto pensi ti abbia influenzato Livorno?
Io credo che mi abbia influenzato moltissimo, anche se noi non siamo mai stati dei veri e propri artisti livornesi. In realtà non abbiamo neanche quasi mai cantato la città direttamente, non è nemmeno mai appartenuta troppo alle tematiche delle nostre canzoni. Credo però che l’attitudine per le cose dipenda molto dal luogo in cui sei nato, è con quell’origine che devi fare i conti. Essere livornesi non è una cosa semplicissima, perché hanno una sorte di maledizione, sono persone un po’ incapaci di prendersi sul serio fino in fondo. Questo sicuramente da una parte è un bene, ti preserva da grandi tragedie esistenziali. Allo stesso tempo, però, ti impedisce a volte di essere davvero convincente, se non sei te il primo a venderti bene gli altri non ti comprano bene! Livorno e’ una città in cui è facile sprecarsi, questo sì.

Come riesci a far convivere in te il musicista e lo scrittore? Quanto è diverso scrivere un libro rispetto a scrivere i testi per un disco?
Per me è abbastanza semplice, le sento come due realizzazioni diverse ma frutto della stessa attitudine, che è poi il lavorare con le parole. La differenza è che, nel caso della canzone, le inanelli sul filo di una melodia. In realtà però anche quando scrivo in prosa mi interessa che la frase giri e suoni in un certo modo. Anzi, anche come lettore per me questa caratteristica è discriminante. Non riesco a leggere gli autori che non hanno ritmo, cioè chi non ha orecchio, secondo me, non dovrebbe scrivere (risata).
"Tutti i santi giorni", dal film di Virzì ha vinto il David di Donatello. Nel 2010 L'angelo necessario è comparso ne La prima cosa bella, sempre di Virzì. L’anno precedente la vostra versione di È la pioggia che va accompagnava Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli. Questa collaborazione con il mondo del cinema è capitata casualmente o è una vostra grande passione?
Sicuramente noi siamo tutti appassionati di cinema. Diciamo che è un’opportunità alla fine capitata abbastanza per caso, ma che ci fa davvero piacere. Abbiamo avuto dal mondo del cinema il riconoscimento che non è arrivato da quello della musica. Forse perché il mondo del cinema è un po’ più serio, non lo so (risata).
Ci sono già altri progetti in questo senso?
Al momento no, però noi siamo disponibilissimi. Anzi scrivere una colonna sonora sarebbe una cosa molto divertente che piacerebbe tanto anche a tutti gli altri. Dove magari io cantassi.

Com’è nato il testo di “San Paolo agli operai“? Esattamente a cosa ci si riferisce, c’è un episodio in particolare da cui trae origine il testo?
Non c’è nessun fatto specifico che l’abbia ispirato, se non fare i conti con l’ambiente in cui sono cresciuto che vedeva protagoniste due grandi tradizioni appartenenti da una parte al partito comunista e dall’altra alla chiesa cattolica. La chiesa cattolica è rimasta, il partito comunista è sparito (risata).
Mi sono trovato in mezzo a quelle due realtà lì, vengo da una famiglia comunistissima, anche se ormai, ora, come si dice tutto è compiuto (risata).
Ho vissuto, però, anche accanto all’oratorio, sicché, alla fine come tutti i bambini, l’ho frequentato ed ho avuto modo di conoscere anche i preti operai, presenti a quei tempi. Non vivevano con uno spirito così in contrapposizione come ci mostrano le classiche figure di Don Camillo e Peppone e, soprattutto nei quartieri periferici, a Livorno di questi sacerdoti ce n’erano tanti, prima della controriforma che c’è stata dopo (risata).
Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro “La Generazione”?
Beh, abbastanza. Insomma, la vicenda che riguarda quel portiere di notte attinge anche a situazioni che sono capitate a me. Qualcuno poi mi ha chiesto: “ma quanto ti è costato metterti a nudo?“. In realtà non mi è costato, perché se scrivi qualcosa non è che ti metti a nudo, anzi, gli dai una forma, quindi lo rivesti. Detto in altri termini, credo che non ci sia nessuna differenza se tu descrivi una storia che in parte ti è successa o che hai inventato. Questo però ad un patto: se ciò che racconti è successo a te, devi riuscire ad osservarlo con un sguardo che appartenga anche agli altri. L’obiettivo è quindi cercare di trasmettere quanto di possibilmente universale c’è nella storia che racconti e questo vale anche per le canzoni. Credo che nelle situazioni personali ci sia sempre qualcosa che possa riguardare anche gli altri. Il problema nasce se invece si pensa che sia importante solo perché è accaduto prima di tutto a se stessi. Invece no, cioè per me non è mai così. Non è che una cosa è speciale perché capita a me. Lo diventa se succede a me, ma effettivamente ha qualcosa in cui anche altri possono riconoscersi, se può riguardare anche altre persone. Nel libro “La Generazione” una coppia, di fronte alla realtà di un figlio che non arriva, dopo aver rimandato e rimandato, a un certo punto si trova a dover fare i conti con una domanda molto semplice: a chi racconto le storie che so, a chi lascio quello che ho imparato nella vita?! Alla fine la questione riguarda tutti, chi fa figli, chi li ha fatti, o chi non li farà mai. Da questo punto di vista è una storia che ho deciso di raccontare perché mi sembrava interessante in generale, al di là del fatto che poi in parte fosse capitata a me. 





Milano, ottobre 2013

Foto di Starfooker

Grazie ad Eleonora Montesanti per l’ispirazione delle domande.
Grazie ad Ellebi per il prezioso aiuto e a Nadia Merlo Fiorillo per i suggerimenti.

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